Giugno 11th, 2022, category: Blog,
fatto quotidiano, blog, 11 giugno 2022
Dopo due anni di fermo, una “anomala” anteprima il settembre scorso (forse più utile al “respiro” della città di Milano che al settore), in una collocazione temporale più avanzata di quella solita primaverile, si tiene in questi giorni la Design Week, collegata al Salone del mobile in Fiera, giunto alla 60esima edizione. Un’occasione di rilevanza e risonanza che mette imprese e design italiano al centro dell’attenzione internazionale. Diverse sono le valutazioni generali possibili attorno all’evento, che lascio ad altri: qui mi limito ad alcune relative allo specifico del sistema economico-imprenditoriale, dei modi della progettualità e dell’innovazione che vi sono collegati, in questa fase ancora assai complessa che dopo la crisi sanitaria sta vivendo in dramma dell’ennesima guerra, questa volta in Europa, dalle conseguenze tragiche e dagli sviluppi imprevedibili.
Un primo aspetto è relativo alla vitalità complessiva del Sistema Design, dalle molte aziende presenti che tornano a guardare e pensare al futuro – il lavoro in questi anni non è forse mancato, ma il modello globalizzato della filiera lunga ha mostrato la corda a cominciare, fra l’altro, dalla questione delle materie prime – ai visitatori (forse meno che in passato gli stranieri) alle economie che si generano attorno alle iniziative e di riflesso nella città e nel territorio. Un buon clima “commerciale” in Fiera e un numero infinito di eventi fuori salone, come già detto in passato, non tutti propriamente memorabili, di frequente più rispondenti alla logica della volontà di presenza, con deriva festaiol-modaiola. Segnali forti di attenzione verso il mondo dell’arredo arrivano proprio dalla moda, che si è accodato al traino eventistico-comunicativo – in verità con evidente e storica superiorità in questo campo –, da una parte con molti grandi marchi (non solo quelle più d’avanguardia e sperimentali che lo facevano da anni) che hanno varato-rilanciato con più convinzione collezioni per l’arredo, in chiave sostanzialmente e legittimamente fashion-decorativa. Si tratta evidentemente di altro rispetto al design delle aziende italiane del furniture, innovation oriented, ma anche occasione per queste ultime di un rilancio verso la ricerca e la sperimentazione, lo sguardo verso nuovi modelli di business orientati da differenti sistemi valoriali, emersi con forza nella coscienza e sensibilità collettiva ma cui faticano ancora a corrispondere rinnovate offerte di prodotti-sistemi-servizi materiali e immateriali.
Esemplare da questo punto di vista il tormentone – che diventa irritante quando non sostenuto da azioni concrete – della sostenibilità. Tutte ne parlano, compare in molti pay-off pubblicitari e comunicativi, ma guardando in fiera e fuori non molte imprese e progettisti spiegano adeguatamente in che modi stiano concretamente operando in una dimensione integrale e integrata di sistema e processo complessivo da riorientare. Senza neppure sollevare ora la questione che è difficile parlare di sostenibilità senza mettere in discussione – almeno in parte e, come ipotesi, in chiave riformista – il sistema del capitalismo e del mercato del consumo intensivo e infinito di merci, pianeta (e persone).
La domanda, a lungo rimasta sospesa in questi anni difficili, si è riproposta con forza: ripartiamo da dove eravamo rimasti (sapendo che le crisi ricorrenti e permanenti di questo millennio sono la conseguenza “naturale” dell’attuale sistema) oppure ripartiamo su nuove basi di sostenibilità e “cura” umana, sociale, ambientale, di corporate e design social responsability?
Gli attuali segnali parrebbero avvalorare la prima opzione, ben poco sostenibile in verità. Forse il cambiamento è complesso e difficile, ma sembra necessario consolidare i segnali. Che in effetti in parte si sono visti – in termini di riflessioni condivise e di sperimentazioni concrete – da parte di giovani designer, dalle università di design, ma anche dalle letture proposte della lezione dei Maestri. Un esempio per tutti, la piccola mostra alla Statale di Milano sugli arredi per la propria casa degli architetti Enric Miralles e Benedetta Tagliabue, paradigmatica sia per la qualità dei progetti presentati, divenuti non più pezzi unici ma prodotti di piccola serie, che per l’esplicitazione e intellegibilità del processo progettuale reso possibile da un buon allestimento, attento alle necessità di comprensione dei visitatori.
Marzo 30th, 2022, category: Blog,
Marzo 18th, 2021, category: Blog,
Chi si sognerebbe mai di sottoporre a giudizio popolare, di mettere ai voti la scelta di un chirurgo per una operazione al cuore o di un amministratore delegato di un’azienda pubblica oppure (so che mi avventuro in un terreno minato) per scegliere l’allenatore o i calciatori da acquistare per una squadra di calcio? Abbiamo già problemi seri quando bisogna trovare e votare i politici…
Perché mai allora si chiede ad un pubblico generalista – tendenzialmente, come è naturale che sia, senza conoscenze specifiche – di scegliere il logo, sulla base di un gradimento estetico-superficiale si suppone, per le Olimpiadi invernali Milano Cortina 2026? La ricerca di consenso e pubblico (ma di che pubblico parliamo?) o più probabilmente la difficoltà o incapacità di mettere in campo le competenze legate al progetto, nelle scelte dei designer o nelle giurie di esperti, da molto tempo favorisce frettolose scorciatoie come i concorsi – o contest per dirlo più à la page – aperti all’universo mondo e perlopiù gratuiti, in cambio di una risibile millantata “visibilità”, che, come è noto, è il metodo con cui paghiamo l’idraulico o l’avvocato.
Insomma il medico, il Ceo, l’allenatore sono professioni serie dove conta ed è premiata la competenza valutabile per carriera, ruolo o giudizio “fra pari”; quando si parla di progettisti (architetto, designer, grafico; e poi certo anche fotografi, film o video maker etc) invece siamo di fronte a professioni e competenze disciplinari che chiunque, senza conoscenza alcuna, si può permettere di valutare o addirittura, perché anche di questo si parla, pensare poter sostituire.
Credo che ciò sia inaccettabile, da parte delle istituzioni, degli ordini professionali, forse anche degli stessi designer che accettano o si trovano nelle condizioni di accettare tali regole di ingaggio. Senza dire poi che in genere la fase iniziale di un concorso – come è ben noto – conta poco, perché i guadagni si fanno con lo sviluppo e realizzazione, perlopiù assegnati fuori bando e pubblico giudizio questa volta, perché quando ci sono i soldi non si scherza!
La vicenda del logo per l’olimpiade Milano-Cortina non comincia bene fin dal 2018, quando viene proposta una soluzione improvvisata ma rivendicata con orgoglio come – viene raccontato – un’“idea concepita e realizzata all’interno del palazzo del CONI, a costo zero”. Successivamente un concorso fra note agenzie di pubblicità, marketing e comunicazione (Omnicom, Publicis Groupe, Barabino & Partners, Interpublic e Armando Testa) permette di incaricare la milanese Landor Associates, che fa parte del gruppo multinazionale Wpp. Nessuna intenzione di entrare qui nel merito del progetto grafico dei due loghi Dado e Futura, “studiati – si legge – per piacere a chi, tra atleti e appassionati di sport invernali oggi ha 15 anni, ma nel 2026 magari sarà maggiorenne”.
Dal 6 marzo e per due settimane è possibile allora a chiunque votare il preferito ed il vincente, ci compiaciamo di sapere, sarà annunciato in una puntata speciale della trasmissione televisiva ‘I Soliti Ignoti’.
La questione è perché della bontà del lavoro di professionisti possano decidere persone che ne sanno molto poco; naturalmente non essendo il loro lavoro. Si tratta di una esplicita delegittimazione e svalutazione del ruolo dei designer del prodotto o della comunicazione o ancora peggio dell’equivoca illusione che alcune competenze derivate da un percorso di formazione disciplinare non servano e sia sufficiente una perlopiù improvvista soluzione informatica-digitale o altro per sostituirle. Dilettanti allo sbaraglio e “tool”izzazione del mondo: basta un programmino sul computer o sul mobile per essere fotografo, grafico, designer etc etc. Nel settore inoltre è molto temuta anche la soluzione affidata al “cuggino” di passaggio, all’occorrenza improvvisato ultraeconomico esperto.
Senza farla troppo difficile, si tratta dell’ennesimo manifestarsi dell’irrisolta questione della “disintermediazione” socio-politica-culturale caratteristica dei nostri tempi, dell’equivoco della possibilità (senza sensatezza) che tutti possano dire o fare tutto pur senza saperne nulla. In altri termini – conoscendo i rischi che corro a sollevare il tema in questa eletta sede online – gli equivoci della partecipazione diretta o di Internet, citando Umberto Eco, che ha dato la parola gli imbecilli.
Più modestamente però bisognerebbe che nel nostro Paese, come avviene in tutto il resto del mondo, quando si parla di progetto, dall’architettura al design, si chiamino sempre i competenti per fare quello per cui hanno studiato, sono preparati e sanno fare. E nel caso di necessità di giudizio e scelta si lasci che siano i professionisti del settore (progettisti o critici), in quanto conoscitori o detentori di strumenti di giudizio del lavoro specifico, a valutare e decidere. Come dicono ragione e buon senso.
pubblicato su “il fatto quotidiano”, 17/03/2021
Ottobre 25th, 2020, category: Blog,
E’ mancato in questi giorni Enzo Mari, uno dei maggior designer italiani del dopoguerra, e con lui ottantottenne a distanza di poche ore la compagna di una vita, la critica dell’arte Lea Vergine. Ci sono diversi Enzo Mari, che è nato come artista legato all’Arte cinetica e programmata e orgogliosamente autodidatta al mondo del design e della grafica.Il primo è certo quello dei numerosissimi iconici progetti che hanno segnato il suo lungo percorso. Oggetti frutto di una collaborazione stretta e integrata imprenditori come Bruno Danese, Aurelio Zanotta, Alberto Alessi, Renato Rebolini, Enrico Astori, Eugenio Perazza. Un rapporto ricercato, mai facile, dialettico, frutto di confronti lunghi e tormentati che hanno portato a molti oggetti esito di un lavorio continuo di levigatura e di messa a fuoco, in qualche misura “definitivi”.I complementi per la casa di Danese, ma anche i giochi per bambini o le iconiche colorate sintesi delle forme di animali; le sedie “Tonietta” per Zanotta, “Delfina” per Robots, “Mariolina” per Magis, “Box” per Castelli; il tavolo “Frate” per Driade; le numerose ricerche sugli oggetti per la tavola per Alessi o Zani & Zani. Sono nell’immaginario di molte persone, non solo addetti ai lavori, e siamo abituati a vederli perché hanno avuto tutti grande diffusione, anche se di frequente non sappiamo che sono suoi.
L’interesse alla fine sembra essere proprio questo: Mari aspirava e di frequente raggiungeva una forma di “classicità” nella forma levigata dalla ricerca e definitiva nella pulizia della forma; ma lo faceva con la giusta democratica aspirazione che potesse essere per tutti. Forse non sempre vi è riuscito perché il design – e a maggior ragione il suo scarno essenziale e pulito – alla fine resta ancora di frequente una manifestazione elitaria. Ed in parte questo era il suo tormento che lo spingeva a cercare di capire, spiegare, dibattere, scrivere libri (Progetto e passione del 2001, merita certo una rilettura).
Esiste poi un altro aspetto di Mari legato alla passione politica che lo porterà a guardare le contestazioni che hanno attraversato alcuni decenni della storia italiana, che lo spingeranno all’impegno politico nelle istituzioni del design, dalla Triennale all’Adi. Un entusiasmo politico e provocatorio che, ad esempio, nel 1974 lo conduce anche ad aprire una strada di messa in discussione del ruolo di mediazione del designer e dell’industria con la Proposta per autoprogettazione, un piccolo libro con una raccolta di ipotesi progettuali a disposizione per l’autoproduzione degli utilizzatori.
Ancora conosciamo un altro Mari, quello che per molti anni ha lamentato la crisi irreversibile del sistema del design, il venir meno di un’imprenditoria coraggiosa, la perdita di identità del progetto italiano. Le sue presenze in conferenze e presentazioni alimentavano dibattiti e scontri dialettici. Difficile dire che, pur nei modi burberi e talvolta scostanti di un uomo generoso e anche ironico, non avesse qualche ragione.
Proprio in questi giorni la Triennale di Milano gli ha dedicato una bella esposizione, che riprende quella che lo stesso Mari aveva progettato e curato a Torino con Lea Vergine nel 2008. Ha avuto risonanza e discussione, anche internazionale, la scelta concettuale e di comunicazione che nel titolo della mostra propone il nome del designer “annegato” e confuso assieme quello del curatore (stesso corpo, una riga contro quattro etc): “Autore che legge autore” resta un approccio storico-critico discutibile.
Ognuno ha da fare il suo. Che era anche quello che cercava Mari con la sua famosa provocatoria inserzione pubblicitaria dove un “progettista di grande esperienza e riconosciuta qualità cerca disperatamente non solo per sé giovane imprenditore” dotato di coraggio, umiltà e capacità di “conoscere la differenza tra design e moda, fra design, prodotto industriale, arte applicata e karaoke, tra lavoro alienato e lavoro di trasformazione”.
pubblicato su “Il fatto quotidiano”, 21 ottobre 2020
Settembre 17th, 2018, category: Blog,
Diversi tipi di valutazioni (socio-economico, culturale o politico) sono possibili per quanto riguarda l’arrivo (molte volte annunciato in passato) dell’americana Starbucks in Italia, in questo caso a Milano nello storico edificio delle Poste di piazza Cordusio. Allo stesso modo è possibile disquisire e dissentire sulla proposta di un’altra idea di caffè, certo eretica per gli esegeti dell’espresso nostrano, ma che si è affermata come format internazionale, a partire – vuole la leggenda – proprio dalla frequentazione del gran capo Howard Schultz di un locale milanese nel 1983.
Senza entrare in questi massimi sistemi, ho voluto guardare a come è stato concepito per quanto riguarda il rapporto con il pubblico, l’organizzazione degli spazi, i servizi offerti; insomma la logica delle scelte progettuali, evidentemente collegate a condizioni e contesto di mercato, committenza, economia e risorse. Scelte che per necessità provano a interpretare (e quindi possono essere interessanti) i modi di vivere, le aspirazioni e l’immaginario di qualcuno o di molti, a veder le lunghe code di persone in questi giorni, mosse da pubblicità, buona comunicazione assieme alla logica onnipresente dell’Evento.
Starbucks in giro per il mondo è sinonimo di luoghi dove si servono diversi tipi di caffè, ma soprattutto è possibile sostare aparlare, leggere, studiare, lavorare, circondati da arredi semplici e accoglienti, con un servizio amichevole. Da qualche anno solo a Seattle e Shangai è stata introdotta la formula nuova del Roastery, che esibisce il processo produttivo e preparatorio del caffè con macchinari in bella vista e spazi divenuti più ampi e conviviali. Questa è la ricetta proposta a Milano, che spiazza rispetto all’idea medium-profile della catena che tutti conosciamo, integrata da un deliberato e dichiarato omaggio all’Italia, con il cibo di Princima soprattutto la novelle vague del food italiano con il gelato molecolare all’azoto del torinese Alberto Marchetti, fino al recupero dell’icona degli strumenti di segnalazione a palette di Solari, storica presenza in aeroporti e stazioni, precocemente pensionati in nome di una fraintesa idea di rinnovamentotecnologico permanente, anche senza necessità. Un interno quindi a metà strada fra torrefazione, luogo della produzione e del servizio, dove materiali e arredi, realizzati con artigiani e imprese nostrane, definiscono in sostanza una scenografia, una sorta di messa in scena dello spettacolo della preparazione e della fruizione del caffè, o meglio di un certo tipo di caffè. In verità, omaggio ai tempi, avevamo già assistito alla parziale messa in discussione del rito dell’espresso domestico o da bar soppiantato dall’inodore, incolore, spesso insapore, cialda in plastica e macchinetta relativa.
Indipendentemente dalle possibili letture, dall’affinità e rispondenza ai gusti individuali, lo Starbucks milanese sembra registrare e proporre un nuovo standard per i locali pubblici, in particolare per lo storico caffè, non diversamente da come era accaduto anni fa, ad esempio, con Eataly per la grande distribuzione food.
La progettista Liz Muller – nata olandese, poi passata per Sud Africa e Stati Uniti – afferma con orgoglio di essere partita nella concezione dello Starbucks milanese “dalla fine”, immaginando cioè cosa avrebbero voluto le persone, cosa sarebbe stato giusto far trovare perché fossero a loro agio, avessero una esperienza gradevole e gratificante. Messaggio per architetti-star e arredatori (e i loro committenti e agiografi): il tempo dell’auto-rappresentazione del proprio super-ego, senza o poca cura per persone, ambiente e fruizione, è ormai finita.
Ma alla fine certamente, parafrasando quanto diceva il divo Philippe Starck a proposito di un suo oggetto e gli inglesi a proposito del weather: Starbucks non serve (solo) per bere il caffè, servirà (anche) per fare conversazione.
pubblicato su “Il fatto quotidiano”, 8 settembre 2018
Agosto 21st, 2018, category: Blog,
Poche figure hanno avuto più influenza nella storia del design che Charles Eames (Saint Louis, 17 giugno 1907 – Saint Louis, 21 agosto 1978), architetto e designer americano, mancato 40 anni orsono ma la cui notorietà ed esempio sono quanto mai vivi e attuali.
La sua attività – da sempre condotta con la moglie Ray Kaiser in un sodalizio dove la fusione fra vita e progetto è stata strettissima e emblematica – ha spaziato in numerosi ambiti, dal design alla grafica all’architettura, passando attraverso ricerche artistiche bi e tridimensionali, fotografie, ma anche una ricca produzione filmica.
Gli Eames infatti hanno costantemente guardato alla diffusione del buon progetto attraverso ogni strumento, dall’insegnamento ai giochi didattici, dalla fotografia al film (questi ultimi assolutamente da vedere, ad esempio su http://www.eamesoffice.com/).
Nel campo dell’arredamento hanno progettato molti classici, in particolare sedie, esito di percorsi di ricerca e buon disegno, entrati nella storia ma sopratutto nella vita quotidiana di milioni di persone: dalle sedute legate alle sperimentazioni sulle forme organiche e il playwood, il multistrato di legno che permetteva linee sinuose e avvolgenti, su cui aveva iniziato a lavorare per l’esercito durante il secondo conflitto mondiale, alla prima sedia con scocca unica in plastica dell’immediato dopoguerra e ancora alla archetipa e “definitiva” Alluminium chair per ufficio, innovativa per l’uso dell’alluminio e l’estremo comfort.
Rappresentano il risultato della volontà di realizzare un prodotto industriale di grande-media serie adottando tecnologie d’avanguardia e allo stesso tempo renderlo economicamente accessibile a una vasta massa di utilizzatori, secondo un’ideale democratico del design.
Obiettivo non era l’arredo autoriale, che caratterizzava (continua in verità a caratterizzare molte archi-designer star) il lavoro di molti progettisti, ma il pensiero e la ricerca nel design come strumento che, attraverso il dialogo con l’industria, permetta di raggiungere il massimo numero di persone.
Un ruolo decisivo per la formazione e la crescita intellettuale degli Eames, come del resto per tutta una generazione di architetti e designer americani, da Florence Knoll a Harry Bertoia, l’ebbe fra le due guerre la Cranbrook Academy of Art, fondata da Eliel Saarinen e proseguita dal figlio Eero. Eames vi insegnò a lungo e lì ebbero origine duraturi rapporti di amicizia e lavoro. Proprio con Eero Saarinen, Eames partecipa al concorso “Organic design in home furnishing”, indetto nel 1940 dal neonato MOMA di New York, con una serie di sedie denominate Organic armchair. Esse sono all’origine di un’intera famiglia progettuale di sedute a scocca avvolgente che unificano sedile, schienale e braccioli, poi tradotte in legno curvato, materia plastica, ma anche tondino di ferro.
Come conferma la sedia in legno curvato del 1946 per la Herman Miller, che da allora ha realizzato la maggioranza dei progetti di Eames – oggi invece prodotti dall’europea Vitra – , dalle linee arrotondate e avvolgenti, intuitivamente ergonomica, disponibile anche con piedi in tubo d’acciaio; o ancora di più con la dining armchair DAX del 1948 in resina di poliestere rinforzata in fiberglass, ai tempi un materiale strettamente aeronautico: sotto un’unica scocca, presto stampata in diverse varianti di colore, a seconda delle necessità d’uso, potevano collocarsi sostegni differenti, dalle famose gambe a traliccio ,“Eiffel tower”, a quelle con rotelle per l’ufficio.
Anche l’approccio all’architettura degli Eames è di evidente ispirazione “industriale”. La loro casa-studio di Los Angeles, dell’immediato dopoguerra, è realizzata con una struttura d’acciaio e parti prefabbricate. La caratterizzano le grandi pareti vetrate, le soluzioni cromatiche-decorative per gli esterni, riprese poi nei mobili contenitori per l’interno, ma soprattutto un’idea di “globalità”, di tutto unitario, del progetto ma anche della vita, per cui il lavoro e i suoi spazi sono contigui e continui con l’abitazione.
Oggi molti designer guardano al linguaggio, allo stile di Eames, mentre sembra meno inteso il significato profondo di volontà-necessità di dialogo con il proprio tempo, per indirizzare ricerca e creatività verso risultati non necessariamente influenzati dal mercato e forse proprio per questo destinati a durare nel tempo, oltre le mode.
In questo senso la poltrona con poggiapiedi 670 in pelle nera e playwood è un oggetto emblematico: forse un pò difficile ed elitario, ma inarrivabile per eleganza, compiutezza e correttezza di progetto. Insomma, oltre il tempo. Charles e Ray l’avevano disegnata per il compleanno dell’amico regista Billy Wilder nel 1957: racconta al meglio l’epoca d’oro di una (certa, non tutta naturalmente) “nuova”cultura americana, del cinema, l’architettura e il design, l’arte: (in apparenza) facile e assieme colta, confortevole e moderna, “industriale” e legata alle necessità/desideri/immaginario delle persone.
pubblicato su “Il fatto quotidiano”, 21/08/2018
Agosto 17th, 2018, category: Blog,
Fulvio Cinti, che è mancato qualche giorno fa a novantasei anni, merita un posto speciale nell storia del design italiano. Dalla fine degli anni Settanta con la sua rivista “Auto&Design” ha sostenuto, affiancato e divulgato in tutto il mondo la cultura del car design italiano, dando parola ai designer, costruendo sistemi di comprensione della specificità della linea italiana.
Fulvio poi è stato per me un amico. Mi chiese molti anni fa di collaborare alla rivista, scrivendo non di auto ma di design, di arredamenti, di oggetti e altro. Un giorno, assieme a Marco Fornasier, abbiamo progettato una rivista, certo controcorrente ai tempi delle firme e dei brand, che volevamo chiamare orgogliosamente Industrial design . Non siamo arrivati in fondo, ma è un ottimo ricordo che ci ha legati e di cui parlavamo assieme vedendoci.
Da tempo avevo immaginato di intervistarlo per farmi raccontare e lasciare traccia di “prima voce” di un protagonista che ha accompagnato cinquant’anni di storia del car design. Pensi sempre ci sia il tempo, ma non c’è stato.
Dieci anni fa scadeva uno dei decenni tondi della mia vita; lui aveva ottantacinque anni e venne da solo da Torino con la sua Alfa rossa alla mia festa di compleanno in Brianza, portando come un signore d’altri tempi delle rose per mia moglie, la padrona di casa. Fu un grande piacere e un onore: lui era così, un giovane ragazzo pieno di energie e passione per il proprio lavoro, le automobili, le persone.
Marzo 12th, 2017, category: Blog,
mostra a cura di Alberto Bassi e Carlo Masera
Università Iuav di Venezia
Tolentini, Aula Magna
20 marzo – 19 maggio 2017
Mauro Masera è fra i maggiori fotografi del design italiano.
Nato nel 1934 e sempre vissuto a Milano, si forma nell’ambito della fotografia industriale, entrando presto in contatto con importanti graphic designer – come Erberto Carboni, Pino Tovaglia e Michele Provinciali – con i quali collabora assiduamente e attraverso cui conosce architetti e designer nonché le più importanti aziende italiane, avviando rapporti destinati a durare nel tempo. Fra queste, vanno ricordate Gavina, Kartell, Arflex, Cassina, Zanotta, Tecno, Alessi e Fontana Arte. Numerose sono anche le collaborazioni con le riviste di design e arredamento, come “Abitare” e “Ottagono”.
Nella fase storica del design, che ha inizio negli anni Cinquanta e prosegue nei decenni successivi, l’attività di Masera si affianca perciò a quella dei protagonisti della fotografia, come Aldo e Marirosa Ballo, Giorgio Casali, Oliviero Toscani o Serge Libis.
Il lavoro di Masera si caratterizza per alcuni aspetti specifici, come l’attenzione ai caratteri, agli elementi compositivi e al dettaglio degli oggetti, anche come esito della sua formazione nella fotografia industriale.
Un altro aspetto è costituito dall’attitudine a organizzare lo spazio fotografico, facendo dialogare e interagire i prodotti con le figure umane, in una modalità che è in parte tipica di un momento storico, ma sottolinea un interesse verso la dimensione e gli aspetti della vita quotidiana e delle persone.
In occasione dell’acquisizione da parte dell’Archivio Progetti dell’Università Iuav di Venezia dell’archivio professionale di Mauro Masera è stata predisposta una prima ricognizione dell’attività e del ricco patrimonio fotografico e documentale.
Con l’intenzione di fornire una lettura ampia del lavoro, che metta cioè in relazione committenza industriale e progettisti nell’ambito del prodotto ma soprattutto della comunicazione visiva, la mostra è strutturata in sezioni che ricostruiscono vari momenti dell’attività professionale, evidenziando di volta in volta il rapporto con grafici, imprenditori, editori, altri fotografi ed esponenti della cultura del progetto.
Le immagini fotografiche sono affiancate da documenti, cataloghi aziendali e riviste allo scopo di comprendere meglio il significato e il contesto d’utilizzo.
Marzo 12th, 2017, category: Blog,
1) Professor Bassi, la Sua ultima fatica, appena uscita per i tipi del Mulino, si intitola Design contemporaneo: quali sono le tendenze e i linguaggi del design dei giorni nostri?
Lo sforzo condotto nel libro è di costruire, oltre la pratica prevalente della pura cronaca, una varietà e complessità di strumenti di lettura, comprensione e valutazione dei differenti modi di intendere e praticare il design. Nel senso che la dimensione formale e linguistica rappresenta certo un componente rilevante ma non unica per capire cosa sta succedendo nel design. Di frequente sono più rilevanti dinamiche complessive, come il ruolo sempre più rilevante delle cose cui semplicemente accediamo (come internet) senza averne il fisico possesso, perché ciò è in grado di mutare radicalmente il mercato o i prodotti. In ogni caso è da tempo evidente che determinate tipologie di prodotto sono ormai mature (dall’automobile a un certo modo di intendere l’arredo) mentre nella nostra vita quotidiana hanno rilevanza quelli che chiamo super-oggetti, ad esempio le macchine dispensatrici di servizi o prodotti (il biglietto del treno o il caffè) dove conta la qualità dell’interazione fisica tecnologica. Certo più in generale si può sostenere che siamo di fronte a una divaricazione per quanto riguarda il design degli artefatti: da una parte l’oggetto-tecnologico (come il telefonino o il computer) fornito di grande appeal e impatto sull’immaginario collettivo, dall’altra gli oggetti che adottano linguaggi riconoscibili (come il cosiddetto retrodesign che ripropone ridisegnato prodotti storici, ad esempio l’auto Mini o 500 o lo stile anni ’50 nell’arredo) ed di immediato impatto per la conquista del mercato, all’insegna di una variazione nell’ omogeneità.
2) In che modo la digital fabrication influisce sul design?
La digital fabbrication oggi è utilizzata o per integrare processi e sistemi industriali avanzati oppure in una logica di processo completo dal progetto alla produzione al prodotto, nelle strategie maker o di autoproduzione. In entrambi i casi si tratta di un impiego limitato e parziale a fronte di prospettive radicalmente nuove che si possono aprire al sistema complessivo di progetto-produzioine-distribuzione-comunicazione-consumo. Basta pensare alle opportunità della idea di fabbrica diffusa e infinita, a chilometro zero, resa possibile dal progetto producibile on demand e just in time appoggiandosi ai sistemi locali di fab lab e lean production operanti in rete, potenzialmente in tutto il mondo, superando questioni di logistica, gestione organizzativa e di processo.
3) Viviamo nell’epoca del design diffuso: qual è e quale potrà essere la funzione del design nella nostra società?
Sicuramente le nuove tecnologie progettuali, produttive e comunicativo-distributive stanno aprendo la strada a possibilità di diffusione delle pratiche progettuali, che va detto rimangono perlopiù in un dimensione di Do It Yourself in sostanza amatoriale e hobbistica, in una equivoca coincidenza fra disponibilità di strumenti e competenze progettuali. Questo vuol dire che invece sono sempre necessari designer esperti forniti di formazione e strumenti metodologico e culturali disciplinari per fare “buon design”, in grado di intervenire proficuamente e positivamente nella società e rispetto alle persone. C’è moltissimo ancora da progettare bene e, nelle nuove condizioni complessive, di nuovo.
La questione non è tanto diversa se pensassimo di poterci rivolgere a un conoscitore, un amatore delle cose di medicina nella necessità di un’operazione al cuore; cerchiamo naturalmente invece un chirurgo. Quando facciamo o scegliamo design, siamo disposti a farlo e rischiare con dilettanti?
4) Nel Suo testo, Lei utilizza l’acronimo SLOC per descrivere il panorama entro cui opera il design contemporaneo: a cosa si riferisce?
Small, local, open e connected sono gli elementi che configurano un nuovo paradigma determinato da inedite condizioni, con cui confrontarsi anche per progettare prodotti, sistemi e servizi al servizio delle esigenze reali delle persone, non solo delle logiche di un capitalismo finanziario globale generatore di crisi e conflittualità permanente. Una possibilità che consente di ripensare davvero il destino (in parte purtroppo già perduto) della manifattura italiana, storicamente segnata da capitale territoriale, sociale e cultura del fare e progettare.
Think local e act global, invertendo i termini di uno slogan diffuso, può essere una strada praticabile.
5) In cosa si distingue il Made in Italy contemporaneo?
Permangono alcune qualità storiche – imprenditoria, cultura del progetto, sistema complessivo e articolato dei settori del design o moda; e ancora flessibilità e variazione produttiva – ma è evidente l’urgenza di un rinnovamento anagrafico e socio-culturale, di imprese, designer e la filiera allargata degli operatori e professionisti, ricollocando al centro ciò che sappiamo fare meglio: ricerca, innovazione e design, muovendo dalle condizioni e presupposti locali per operare in una dimensione globale.
Novembre 7th, 2015, category: Blog,
Walter De Silva è stato il designer del rilancio (anche economico) di Alfa Romeo con la 156 (1997), progetto colto e intelligente, sensibile ai caratteri e all’identità storica, a cui per due decenni hanno guardato tutti i modelli del marchio ex-milanese, poi Fiat.
Non avendo bisogno la casa madre torinese di un buon designer (…), De Silva si trasferisce in Seat e successivamente guida per molti anni il design del gruppo Audi-Volkswagen, contribuendo anche all’approdo dentro lo stesso gruppo automobilistico tedesco dell’Italdesign di Giorgio Giugiaro, anch’egli probabilmente ritenuto non utile né necessario (…) al design delle automobili del gruppo Fiat, poi Fca.
Giugiaro ha di recente venduto il marchio, De Silva andrà in pensione a fine novembre da Volkswagen, esito, fra l’altro, del processo di trasformazione proprietaria-societaria nonché del difficile momento dopo lo scandalo emissioni. La chiusura dei legami con l’industria tedesca di due importanti car designer, anche se assai differenti per ruolo e competenze, fornisce lo spunto per tornare a parlare della difficile situazione italiana del settore.
Fiat e le sue aziende sono ormai da tempo fuori dall’Italia in una direzione evidente (e certo legittima ma discutibile) che privilegia finanza e business non certo il buon progetto, col quale si fanno anche gli affari (sulla Golf di Giugiaro qualcuno campa dagli anni Ottanta) – in attesa dei prossimi, purtroppo assai prevedibili, risultati della gestione della Ferrari “da borsa” –; gli storici carrozzieri-car designer hanno chiuso o vanno smobilitando; il resto di un settore, un tempo florido e fondante per l’economia italiana, mostra segni evidenti di difficoltà.
Si può dire che questi sono i nostri tempi, che così vanno le cose, che il mercato è diventato globale, il business è business e così via cinicamente banalizzando. Ma qualcosa non torna.
Sembrano essere mancate significative riflessioni e azioni pubbliche di intervento politico (nel senso alto di “servizio alla polis”), strategico, di incentivo a investire, fino alla salvaguardia; sono state carenti le iniziative imprenditoriali private ma anche le posizioni sindacali non solo conservative dello status quo e delle “rendite di posizione”; e ancora adeguate riflessioni di natura economica e culturale che permettessero di provare ad affrontare il difficile contesto contemporaneo di impresa, lavoro (e ruolo del progetto).
Sul mercato infatti si sta anche e grazie a tutte queste condizioni. Si può continuare a dire che così va il mondo, ma qualcosa non torna; soprattutto se si sceglie di guardare le cose dal punto di vista delle possibilità di benessere, non solo economico naturalmente, delle persone.
Da dove si ricomincia? Come si fa ad avviare un rinascimento imprenditoriale nel nostro Paese? Questo dovrebbe essere il grande tema del dibattito politico e culturale.