Il design è probabilmente divenuto (per dirlo con le parole di Enzo Mari) una parola-valigia. Vale a dire che, soprattutto negli ultimi tempi e in particolare in Italia – anche in virtù dell’accresciuta e un po’ improvvisata diffusione e riconoscibilità – è di frequente utilizzato in modo ampio ed allargato, ma quasi sempre a intendere significati assai vari. Spesso attinenti più all’agire attorno alla “superficie” decorativa/comunicativa degli oggetti piuttosto che alla “sostanza”, cioè a quel processo globale che costituisce il fare progettuale. Quel percorso che conduce a formulare un’idea di manufatto industriale (ma anche di processo o servizio) sia come risultanza di un’“intuizione” funzionale e/o tecnologica e/o estetica oppure in risposta a una necessità di mercato o degli utilizzatori; sia a predisporne i caratteri tecnologici e formali in relazione alle possibilità ed economie di produzione. Naturalmente passando dalla “parola” ai fatti, all’analisi fenomenologia della pratica del design, si chiariscono molte cose, ma rimane di sicuro che il ruolo del progetto, ad esempio, trova disparate applicazioni in relazione a diversi contesti economico-sociali e imprenditoriali, e ancora a seconda degli ambiti tipologici e produttivi, dell’organizzazione del lavoro di aziende e studi professionali. Insomma è evidentemente differente il modo di intendere il design se ci si riferisce a una navicella
spaziale, a un divano, a un’interfaccia web. E poi si capisce di più, se si aggettiva la parola: industrial, visual, product, interaction e così via. Una modalità teorica e operativa di affrontare il progetto per l’industrial design – soprattutto di tradizione anglosassone – è quella che all’interno di un team group vede schierate diverse competenze in grado di occuparsi con pertinenza delle numerose fasi che concorrono alla determinazione di un prodotto/servizio/processo, in un virtuoso affiancamento solidale con l’impresa committente. Sviluppa quindi una metodologia che muove dall’analisi delle condizioni del mercato, in termini
economici ma anche di aspirazioni e possibilità, per occuparsi di progettare le componenti fisiche e psicologiche capaci di soddisfare al meglio le esigenze “reali” degli utilizzatori. In sostanza una volontà di predisporre tutti gli elementi utili a porsi dalla parte di “chi usa le cose”. Questo è l’approccio che ha caratterizzato l’attività di Continuum nel corso di un ventennio, da quando nel 1987 ha aperto la sua sede italiana a Milano, affiancandola a quella americana di Boston e poi a quella coreana di Seoul. Due decadi nel corso delle quali è stato attivo in settori per cui erano necessarie ampie competenze e approccio complessivo: dallo sport al design medicale, all’oggetto tecnologico. L’articolata selezione che è stata condotta in questo volume per raccontare l’attività di Continuum ben documenta varietà, profondità d’intervento e bontà d’esito. Sono nella maggioranza prodotti che usiamo quotidianamente. Alcuni di questi, che contengono una piccola “invenzione”, ci rendono la vita più facile con la loro semplificazione operativa ed efficacia di impiego, altri ci aiutano attraverso l’intervento sugli strumenti di chi si occupa della nostra salute oppure garantiscono la sicurezza durante una pratica sportiva. Design driven innovation si può definire questo modo di procedere. Comprendere assieme alle aziende – con una funzione di innovation, ma anche di business consultancy – quali sono i bisogni reali di utilizzatori e mercato e – agendo come product development consultancy – avvalersi poi delle competenze appropriate a risolvere nel migliore dei modi possibili il percorso progettuale di prodotto/servizi/processo.
Guidati dall’idea che è il design – in sostanza da intendersi come un’articolata “interfaccia” fra uomo e prodotto – a condurre il processo dell’innovazione. Altrimenti si finisce unicamente per fare “nuovismo”, il nuovo per il nuovo in grado di solleticare solo il mercato nel modo più superficiale. Questo spiega anche come il lavoro di Continuum si sia sempre collocato in condizioni di frontiera, di avanguardia per quanto riguarda ricerca e appunto innovazione. Esplorando e scoprendo di volta in volta gli ambiti inediti che si andavano delineando, a muovere da questa attenzione verso l’utente: gli oggetti tecnologici e i new media, la cura del corpo e della salute e, più di recente, il design “for real world”. Che vuol dire guardare con realismo e assieme tensione etica alle tematiche “alte” che sfidano la cultura del progetto contemporaneo, e più in generale imprese e sistema socio-economico. Come, ad esempio, la sostenibilità, il design for all o ancora la necessità e urgenza (oltre il mercato del consumo occidentale e riprendendo un’utile mostra al Cooper-Hewitt Museum di New York) di occuparsi anche della maggioranza della popolazione del mondo, del “design for the other 90%”.
Design for the real World
Settembre 2nd, 2010 § 0