Di seguito, il mio intervento al convegno harry bertoia 1915-1978 tenutosi a Pordenone – Sala Consigliare della Provincia il 23 novembre 2007.
Il contributo affronta due temi: da una parte conduce una breve contestualizzazione sulla situazione del design italiano, dagli anni trenta al decennio cinquanta, quando gli oggetti progettati negli Usa arrivano in Italia, e dall’altra indaga le reciproche influenze fra i due paesi, in sostanza ancora da analizzare compiutamente in sede storico-critica.
Contrariamente a quello che si legge spesso, il design italiano affonda le sue radici nel periodo precedente al secondo conflitto bellico.
Il decennio trenta si chiude emblematicamente nel 1940 con la straordinaria e paradigmatica “Mostra della produzione di serie” ordinata da Giuseppe Pagano alla VII Triennale di Milano, che delinea un panorama del design molto ampio. Dopo un inizio di secolo piuttosto difficile per il nostro Paese, sia sul piano dello progresso industriale sia di quello culturale, negli anni fra le guerre si sviluppa infatti un interessante dibattito sui modi di intendere la progettazione per la produzione industriale al quale contribuiscono, ad esempio, l’attività espositiva della Triennale e le idee stimolate dalle nuove riviste. Una riflessione che non coinvolge solo l’arredamento, ma pone l’accento sulla necessità di una metodologia teorica e pratica per la progettazione industriale, incentrata sul ruolo di un’industria capace di produrre per un vasto pubblico i più svariati prodotti di consumo. Pagano intende il disegno industriale nella sua totalità e complessità, esponendo, fra l’altro, le macchine per scrivere disegnate da Marcello Nizzoli per Olivetti, i microscopi della Galileo, i grandi motori dell’aeronautica o i pezzi d’arredo. Non è un caso, dunque, che negli anni trenta in Italia già siano presenti molti segnali che – sebbene non sia ancora sviluppato una compiuta potenzialità dell’industria, soprattutto le medio-piccole imprese oltre che un mercato di massa – dimostrano l’esistenza di una compiuta cultura del progetto, alimentata da una crescente sensibilità della cultura d’impresa, in particolare della grande impresa. D’altra parte, nello stesso periodo inizia anche la trasformazione di tutta un’area dell’artigianato – ad esempio quella legata al mobile – dal fatto a mano alla produzione meccanizzata, che è all’origine del successivo sviluppo fra gli anni cinquanta e sessanta di aree come la Brianza o il Triveneto. Ma agli anni trenta data anche il compiuto delinearsi del comparto dell’automobile sia nella direzione produttiva dell’auto popolare sia di quella sportiva, anche attraverso l’attività dei maggiori carrozzieri, dai quali nasceranno in sostanza le attività professionali dei car designer. Due filoni che caratterizzano da allora la produzione italiana: senza riconoscere queste origini, è difficile comprendere come mai negli anni cinquanta si produrranno le Fiat 600 e 500 o le Alfa 1900 di Satta, o appunto la presenza di importanti car designer, quali Pininfarina o Bertone. Negli stessi anni si affermano importanti progettisti nell’aeronautica e non sarà dunque un caso che i due scooter più importanti del dopoguerra – Vespa e Lambretta, icone del design italiano negli anni cinquanta –, siano stati ideati non da progettisti di motociclette o architetti, ma da ingegneri aeronautici: Corradino D’Ascanio, padre della moderna elicotteristica con il suo DAT 3 del 1930 e dell’elica a passo variabile, e Cesare Pallavicino, autore di bimotori da turismo Breda. E ancora, Filippo Zappata – che ha lavorato anche ai Cantieri riuniti di Monfalcone –, ha disegnato alcuni fra gli idrovolanti più belli della storia dell’aeronautica e poi in pieno conflitto per Breda il BZ308, quadrimotore da 80 passeggeri destinato all’aviazione civile.
Restando ai prodotti a tecnologia complessa, lo stesso Pagano fu il primo architetto a lavorare con la grande industria, sempre la Breda di Sesto San Giovanni, occupandosi della progettazione del treno ETR200. Gli anni trenta segnano altresì il rinnovarsi della produzione nel settore dell’arredo, nonché il delinearsi di un intero filone, il cosiddetto design anonimo – dalla Moka Bialetti al cappello Borsalino – cioè quegli oggetti che, pur non essendo in prima istanza riconducibili a un autore e talvolta neppure ad un’azienda, si affermano in virtù delle loro qualità di perfetta rispondenza alle necessità tecnico-prestazionali, non disgiunte da caratteri estetici e d’altro genere che ne hanno fatto dei autentici “classici”, evergreen prodotti per moltissimi anni.
Date queste premesse, superata la fase drammatica degli anni della ricostruzione, nel secondo dopoguerra una speciale cultura del progetto permea la nostra società, soprattutto prosegue il dialogo con la cultura di impresa. In altre parole, come già sottolineato da altre fonti, alla base dell’importante sviluppo del disegno industriale italiano degli anni cinquanta c’è una relazione molto stretta fra imprenditori e designer che, in realtà, è abbastanza simile a certe modalità che si delineano anche negli Stati Uniti ad esempio fra Herman Miller e gli Eames o la Knoll e Harry Bertoia. Questa peculiare caratteristica del design italiano, questa permeabilità della cultura del progetto da una parte e della cultura delle imprese dall’altra, ha contribuito all’affermazione del design nel nostro paese e ha consentito alle imprese, fra l’altro, di trasformarsi con maggiore facilità che in altri paesi, puntando sulla flessibilità produttiva, in pratica sulla capacità di adattarsi alle molteplici richieste dei progettisti, del mercato e della produzione. Non è un caso allora che ancora oggi, contando su analoghe condizioni, i maggiori designer mondiali si avvalgano di aziende italiane per le loro produzioni, da Philippe Starck a Jasper Morrison, a Ron Arad.
Negli anni cinquanta comunque si va anche costruendo un mercato dei consumi di massa, come testimonia l’amplissima e veloce diffusione degli scooter. Questi mezzi di trasporto motorizzano l’Italia sostituendo o integrandosi coi veicoli precedenti – la bicicletta in primis –, ma introducono anche una svolta di natura concettuale: non sono più infatti motociclette “da cavalcare” ma si usano come “poltrone da salotto”. È un passaggio rilevante che ha voluto dire, fra l’altro, allargamento del mercato al pubblico femminile o una fruizione più facile, sicura e comfortevole del mezzo. Ciò configura un’altra caratteristica del design italiano: la capacità di unire un progetto razionale dal punto di vista logico e produttivo con intuizioni spiazzanti e “scarti”, spesso di natura concettuale.
La ricerca d’innovazione, anch’essa riconoscibile quale linfa vitale per il nostro paese, si riscontra nello stesso periodo in particolare per la sperimentazione di numerosi nuovi materiali, segnando la nascita o lo sviluppo di aziende che dalla loro applicazione traggono le proprie fortune. Esempio emblematico – e caratteristico della speciale cultura d’impresa italiana – è Pirelli. Le nuove produzioni dell’industria milanese, sostenute a una classe dirigente innovativa e illuminata, daranno vita a due delle più importanti aziende italiane nell’immediato dopoguerra: la Arflex e la Kartell.
Arflex, grazie agli ingegneri Pirelli e alla collaborazione con Marco Zanuso, sarà la prima in Italia ad adottare nel 1951 la gommapiuma Pirelli – già sperimentata in verità nel corso degli anni trenta proprio ad una Triennale – per costruire l’imbottito, dando avvio a una vera propria rivoluzione dal punto di vista dimensionale e del comfort della seduta, oltre che del modo di intendere tale arredo nell’ambiente domestico. Anche Kartell, fondata nel 1949 dall’ingegner Giulio Castelli, realizza i suoi primi prodotti (portasci e portapacchi per automobili) in gomma Pirelli.
Sono anche gli anni del rinnovamento della cultura produttiva di derivazione artigianale. Lo dimostra, ad esempio, la collaborazione fra l’architetto Gio Ponti e Cassina di Meda. L’azienda, di tradizione artigianale, grazie al sodalizio con Ponti intraprende non tanto la strada della serializzazione produttiva per l’arredo domestico, quanto quella della capacità di integrare parti lavorate meccanicamente con interventi manuali. La sedia Superleggera, che si ispira alle classiche sedute di Chiavari, ne mantiene la caratteristica leggerezza strutturale razionalizzando le componenti, usando materiali particolarmente esili, di non sempre facile lavorazione, ed elaborando una serie di soluzioni, anche produttive, di estrema qualità esecutiva.
Nel 1954 una serie di elementi, anche di tipo simbolico, ratificano questa raggiunta consapevolezza del ruolo del design nell’impresa e nella società. Nel corso dell’anno, Achille e Pier Giacomo Castiglioni realizzano la mostra sull’industrial design alla X Triennale, esponendo una casistica molto ampia di oggetti del design italiano e non solo; apre la rivista “Stile industria”, fondata da Alberto Rosselli – autore che già teneva una rubrica dedicata all’industrial design su “Domus” –, che ancora oggi appare come uno strumento ineguagliato per il modo di analizzare il processo progettuale e produttivo, mostrando ad esempio come il progetto si ponga al servizio della produzione industriale, allo scopo di rendere consapevoli designer e imprenditori. Ancora nel 1954, nasce il premio Compasso d’oro, voluto dalla Rinascente, grande magazzino milanese, in seguito affiancato dall’ADI (Associazione per il disegno industriale), e che diventerà lo strumento della testimonianza dell’eccellenza del design italiano in Italia e nel mondo.
Sono questi gli anni della penetrazione del design americano in Italia sia attraverso le informazioni e pubblicazioni sulle riviste che la presenza nei punti di distribuzione commerciale. La relazione fra i due paesi è naturalmente molto più articolata, frutto di vari elementi collegati, cui in questa sede possiamo solo accennare. Ad esempio i soggiorni negli Usa di alcuni progettisti che diventeranno i protagonisti del disegno industriale del nostro paese: Angelo Mangiarotti vi si reca nel 1953-54 per lavorare ed insegnare; Ettore Sottsass nel 1956 collabora con lo studio di George Nelson. D’altra parte, già all’inizio del decennio il design italiano gode di una certa attenzione dal parte del pubblico americano, lo dimostrano le mostre organizzate al MoMA di New York dedicate a Pininfarina nel 1951 e all’Olivetti nel 1952. Franco Albini è chiamato da Knoll a progettare mobili, lo stesso accade a Ponti e inoltre sono promossi concorsi – Knoll, Singer, Alcantara – riservati ai progettisti italiani con l’obiettivo di elaborare arredi dedicati al mercato statunitense.
Se passiamo al contributo della stampa di settore, troviamo nel marzo 1954 una riflessione interessante di Ponti su “Domus” – rivista da lui fondata nel 1928 e diretta fino alla morte nel 1979 – intitolata L’interesse americano per L’Italia. Egli afferma che gli americani apprezzano del design italiano il carattere spontaneo, una certa inconsapevolezza o istintività, una sua indipendenza pragmatica. In buona sostanza, ribadendo una posizione che aveva sostenuto dagli anni trenta, Ponti scrive che il design italiano è fatto dagli italiani. Ovverosia è difficile, come invece è successo in Germania, Francia o negli Usa, ricondurlo a scuole o movimenti unitari, mentre resta legato piuttosto a personalità e temperamenti, proprio perché in Italia esistono tanti modi di intendere il progetto e tale varietà desta l’ammirazione degli americani.
Osservando invece alcune pagine – di cui quattro curate da Nelson dal titolo The Contemporary Domestic Interior – della rivista americana “Interiors” del luglio 1950 possiamo introdurre altri elementi relativi all’influenza del design americano in Italia, importanti anche per capire le caratteristiche del lavoro di Harry Bertoia. In sintesi, uno delle questioni fondamentali è quella della relazione dell’oggetto con lo spazio: la capacità dell’arredo di costruire presenze tridimensionali, nel momento, ad esempio, in cui i prodotti in sostanza si svincolano dalle pareti per assumere una fisicità “decontestualizzata”. Il lavoro di Bertoia nasce in stretta relazione a tale necessità di determinare una forma che dialoga più con la dimensione spaziale che con l’arredamento; della seduta Diamond dirà lui stesso che è fatta d’aria.
Utilizzando sempre “Domus” come strumento per indagare l’incidenza del design Usa nel nostro paese ma anche il contesto culturale, architettonico contemporaneo nel quale questo “pacifica invasione” si inserisce, possiamo osservare che un modello iniziale della Diamond – presentata nel 1952 ma in sostanza in produzione dall’anno successivo – compare per la prima volta nel giugno 1955, con alcune puntualizzazioni sull’aggancio fra struttura delle gambe e seduta e sul colore del rivestimento. Nel maggio 1956 la sedia conquista la copertina della rivista, in coincidenza con l’apertura del negozio Knoll in piazza Belgiojoso 2 a Milano, quando la rivista ospita anche una pagina pubblicitaria istituzionale e presenta altri mobili Knoll, non però progettati da Bertoia.
Per inciso, la comunicazione della Knoll in quegli anni è curata dal grafico svizzero Herbert Matter che disegna il primo logo dell’azienda e tutte le campagne pubblicitarie.
Bisogna aspettare il numero di luglio per vedere pubblicate le Diamond di Bertoia, dove la scelta di due immagini con la seduta “in movimento” evidenzia le caratteristiche prima accennate del suo lavoro: aspetto scultoreo e mobilità.
Accanto agli oggetti provenienti da oltreoceano, i numeri di quel periodo presentano esempi emblematici del cosiddetto good design italiano e dei suoi spazi di distribuzione, documentando il rinnovamento dell’offerta nel nostro paese. Le poltrone reclinabili di Osvaldo Borsani per Tecno, fondamentale connubio fra invenzione meccanica e nuova dinamicità del soggiorno; l’apertura a Milano del nuovo negozio Arflex, con i mobili realizzati con inediti materiali da imbottitura; l’annuncio dell’esordio di De Padova che porta in Italia arredi di ispirazione scandinava.
Ma contemporaneamente la rivista documenta i segnali dell’individualità propria del design italiano, ad esempio, con la pubblicazione nel novembre 1956 di una casa a Novara di Gregotti, Meneghetti, Stoppino, arredata con i pezzi che nel 1962 diventeranno gli oggetti-simbolo del cosiddetto neoliberty, espressione di una riflessione condotta contro il cosiddetto good design, la corrispondenza forma-funzione di derivazione bauhaussiana.
È interessante altresì notare nello stesso numero la convivenza di queste realizzazioni con il progetto del negozio Knoll a in via Belgiojoso presentato da Ponti. Opera di Florence Knoll, viene salutato con soddisfazione perché finalmente anche in Italia si possono vedere e acquistare mobili che i progettisti conoscono e usano da tempo. Ciò allude a una circolazione d’idee attorno al lavoro di Bertoia e degli architetti americani, anche se la grande diffusione dei mobili Knoll in Italia avviene dopo l’apertura del negozio milanese, dove sono proposte anche le sculture di Bertoia.
Non diversamente dagli oggetti di design, le sue sculture hanno una capacità particolare di dialogare con lo spazio. La seduta, come lui stesso scriveva, era fatta d’aria, vale a dire era in qualche modo attraversata dallo spazio. In altri casi ne raccontava come esito di un processo analogo a quello della sculture. Nelle sedie esiste la base, costituita dalle gambe, su cui si colloca una forma risultato di riflessioni sulla modificazione nello spazio di una configurazione appunto a diamante; la modalità di relazionare la base e la parte superiore è analoga a quella della scultura.
È importante mostrare come proprio il tipo di formazione che Bertoia ha avuto, dentro una scuola di progetto e non d’arte, orienta in modo decisivo il suo lavoro di designer; inoltre la collocazione dell’oggetto all’interno di un’architettura e di uno spazio risponde a logiche squisitamente di natura progettuale. Vale a dire quando Bertoia fa il designer, ragiona con le logiche dell’industrial designer; come compare nelle sue note, ad esempio, ragiona sulla corretta postura che la sua sedia può permettere, sull’ergonomia, sul comfort o sulle modalità esecutive. E il tema della saldatura, che è caratteristico della scultura, è una questione sottesa anche alla produzione della sedia.
Distinguere fra l’attività di Bertoia come designer e artista è necessario per non confondere modi e metodi: muovendo da un certo tipo di ispirazione artistica e allo stesso tempo da una formazione di natura progettuale, Bertoia progetta un prodotto industriale, certo di grande sensibilità estetica, ma che resta prodotto industriale.