Design anonimo ad Osaka

Febbraio 7th, 2011 § 2

Il design anonimo costituisce uno di filoni portanti della storia e dell’attualità dei prodotti industriali. La maggioranza degli oggetti che quotidianamente utilizziamo sono anonimi dal punto di vista del design. Nel senso che non ne conosciamo il progettista o non li riferiamo immediatamente ad un’azienda. Non è noto il designer, ma sono il risultato evidente di un progetto. Da intendersi come il percorso che conduce a configurare un artefatto estetico, esito di un’idea funzionale, tecnica, tipologica, formale o d’altra natura – a diverso titolo collegata a una necessità, a una committenza o al mercato – e a predisporne i caratteri in relazione a possibilità ed economie di produzione, distribuzione e comunicazione.

In un momento cui viene data grande rilevanza a designer e brand, più in generale in una fase di trasformazione delle merci estetiche contemporanee, meritano di essere sostenute e proposte ad exempla le “normali” virtù del design anonimo. Non certo per negare il ruolo esplicito del designer, quanto per evidenziarne ancor più i risultati significativi. La maggioranza dei prodotti anonimi (e parliamo naturalmente solo di quelli rilevanti per qualità e progetto) sono scelti sono per le loro esplicite qualità: sono frutto di una necessità, di un “dover essere”, cui non manca una propria qualità formale, che ne ha fatto dei riferimenti imprescindibili nella storia degli artefatti. Inoltre, a ben guardare appunto, continuano ad essere la maggioranza degli oggetti che quotidianamente utilizziamo, dai prodotti “usa e getta” alla moka, dai mobile phone ai computer ai Post-it. È dunque  utile occuparsene per diversi ordini di motivi. Nei numerosi casi interessanti per “buon progetto”, come direbbe Enzo Mari (ed escludendo dunque per scelta gli esempi scadenti), presentano caratteri assai significativi; sono frutto di una necessità, di un “dover essere”, cui non manca una propria qualità formale, che ne ha fatto riferimenti imprescindibili nella storia degli artefatti. Nella maggioranza dei casi forniscono indicazioni utili alla comprensione, oltre che del prodotto stesso, del contesto dentro cui si collocano: la cultura del progettista, dell’impresa, di un distretto produttivo, di un momento tecnologico o sociale. A ribadire come gli artefatti possono essere punto di partenza per molti racconti, di tante narrazioni connesse agli aspetti e alle relazioni che li determinano e allo stesso tempo finiscono per generare: economiche, produttive, tecnologiche, di mercato e così via. Permettono di parlare di progetto, produzione, comunicazione e consumo, di rendere conto della cultura del prodotto e del lavoro, di una specifica industria o società; infine, di collocarli in una sequenza temporale di “storia delle cose”[i]. “Per lo storico non esistono cose banali… – ha scritto Siegfried Giedion –. Non può permettersi di vedere gli oggetti con gli occhi di chi li usa quotidianamente, bensì deve usare quelli dell’inventore, come se li vedessero in quel momento per la prima volta. Egli deve avere gli occhi nuovi del contemporaneo, al quale gli oggetti sembrano meravigliosi o terrificanti. Contemporaneamente deve precisare la loro mutua posizione nel tempo e con ciò il loro significato”[ii]. Nel vasto panorama della riflessione sul design, in particolare nella sua fase compiutamente fondativa a cavallo e nella prima metà del secolo scorso, il tema del progetto anonimo emerge in relazione a questioni teoriche nodali, come il concetto di standard e serie, piuttosto che la decorazione o il contributo dell’arte. In alcuni casi si tratta di un riferimento esplicito, in altri talvolta indiretto, a definire un ambito con caratteri in parte specifici. In sostanza anonymous o d’autore – architetto, ingegnere, artista o altro – presentano metodi, prassi, obiettivi comuni e confrontabili; differenti paiono gli accenti di volta in volta posti sulle componenti estetiche, tecnologiche, funzionali o di altro tipo. Richiamo e attenzione verso la modalità anonima risultano essere innanzitutto di tipo conoscitivo volti a comprenderne le manifestazioni e evidenziarne le valenze positive, trascurando comunque in modo deliberato quelle incongrue e antiestetiche. Sono infatti frequenti gli intenti critici che per contrasto, additano l’anonimo a modello in contesti culturali, temporali e geografici, bisognosi di definire o ritrovare un significato elevato del progetto. L’originaria omogeneità di campo e pratica dell’anonimo come una delle normali possibilità di manifestarsi del disegno per la produzione, nel corso del tempo viene messa in discussione e superata (e di conseguenza poi di nuovo ribadita) in relazione alle necessità di affermare una cultura e una prassi autoriale. Da una parte come esigenza di consolidare un raggiunto status disciplinare e professionale, dall’altra in relazione a un più preciso definirsi dei meccanismi d’impresa, di produzione-distribuzione-comunicazione-consumo. Nel panorama contemporaneo parlare di oggetti che abbiano le qualità scarse, essenziali e necessarie del design anonimo vuol dire affrontare la questione della momento tormentato del progetto, frastornato da designer-star, dall’eccesso di “firma”, cui non sempre corrisponde qualità e innovazione; un design in qualche crisi di identità e orgoglio, di frequente in balia di elaborazioni mascherate da profonde verità a proposito delle obbligate necessità del mondo globalizzato, delle magnifiche sorti e progressive del mercato e delle presunte esigenze del consumo. Senza gran cura di una qualche responsabilità che – fra gli altri – impresa e progetto potrebbero o dovrebbero avere rispetto alla vita e al mondo. La lezione “anonima” merita dunque oggi di essere ripensata: essere, progettare e produrre senza vanità, inutili esibizionismi, senza per questo escludere emozione, passione e altre nuove qualità (necessarie o superflue che siano) delle merci, per porsi con rispetto, cultura e civiltà nei confronti di chi utilizza le cose. La maggior parte dei prodotti usati quotidianamente – anche quelli ad elevato contenuto estetico-emozionale e di progetto – perlopiù sono scelti non per la firma del loro autore, dal computer al telefonino, dall’automobile ai jeans, dalle sneakers alla grande quantità di oggetti “usa e getta”. Se va bene ne riconosciamo il produttore, ma non è detto che scegliamo per quello, attratti magari di più dall’ultima promozione di un gestore telefonico o da un allettante opportunità di bargain. Ad esempio nei settori a tecnologia avanzata, è da tempo chiaro come il business non sia più il prodotto ma il servizio (e il suo “design”): un telefonino gratuito in cambio di un abbonamento, una stampante o un pc low-price per vendere a caro prezzo cartucce di ricambio o software, e poi ancora opportunità come il car sharing o il noleggio di una lavatrice. Molti oggetti e servizi contemporanei sono fruiti nella “distrazione”, di frequente senza accorgerci più di tanto dei loro caratteri funzionali ed estetici. Ciò accomuna gli anonimi ad altri artefatti contemporanei che popolano città, luoghi pubblici e privati, come, solo per fare qualche esempio, la segnaletica, l’attrezzatura urbana fino alle vending machine, macchine distributrici ormai di un po’ di tutto, dal denaro alle sigarette, al caffè[iii]. Queste tipologie di prodotti – ampliabili appunto a quelli dell’elettronica, dai computer ai mobile phone – si inseriscono certo nel filone del design“incognito”, di cui rappresentano in sostanza una nuova generazione, caratteristica dell’attuale condizione della società globale. Non più strumenti meccanici levigati dal tempo e dall’uso, ma evoluti sistemi elettronici al servizio del consumo. A questo proposito verrebbe da adottare, e adattare liberamente, la classica riflessione antropologica di Marc Augé: “Uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo”; analoghe caratteristiche possono forse attribuirsi a molti nonoggetti della ‘surmodernità’”[iv]. Nel nostro caso siamo di fronte a nonoggetti (nel senso che nessuno se ne accorge), ma alla fine superoggetti (perché hanno presenza culturale e fisicità evidente); ohne design e assieme superdesign. Da una parte allora si spersonalizza la relazione oggetto/utilizzatore nella fruizione distratta, dall’altra si enfatizza il brand aziendale o autoriale; restano tuttavia sempre in maggioranza i prodotti o i servizi acquistati e usati perché unicamente di “buon progetto”. Critici e designer sono allora tornati a occuparsi e a dedicare riflessioni all’artefatto – comunque lo si voglia etichettare – comune, normale, anonimo; per dirlo con la definizione dell’archietto Gio Ponti, al “design senza aggettivi”. Paola Antonelli, curatrice del design al MoMa di new York, ha collocato in un elenco di “umili capolavori”, fra gli altri, pallone da calcio, zolletta di zucchero, codice a barre, Post-it, bicchiere di carta usa e getta, lampadina, led, fiammiferi, ciabattine Flip-Flop, Tampax, ma anche moka Bialetti, mattoncini Lego, Toblerone o l’accendino Zippo[v]. Fra i 999 Phaidon Design Classics fanno la loro dignitosa comparsa, assieme a conclamati evergreen, la puntina da disegno, la bottiglietta del Campari Soda, il coltellino svizzero, la cerniera Zip, la sdraio da spiaggia, la pentola a pressione e ancora Tupperware, Walkman e Swatch[vi]. Uno studio recente dedicato al design anonimo italiano ha identificato quasi un centinaio di oggetti archetipi e caratteristici del contesto progettuale e produttivo di questo paese: dalla caffettiera moka Bialetti al cappello Borsalino agli occhiali Persol[vii]. I designer Jasper Morrison e Naoto Fukasawa hanno allestito la mostra Super Normal dove – accanto ad alcuni progetti puliti ed essenziali, loro o di colleghi – selezionano la biro Bic, la clip metallica per i fogli, le lampade di carta[viii]. Muovendo dall’idea che quanto ci è più vicino, per consuetudine o facilità d’uso, corrisponde a un profilo di comune semplicità. Ha sostenuto Morrison su “Domus”: “il mondo del design vive una situazione di deriva dalla normalità, ha dimenticato le proprie radici e il principio originario in base al quale ai designer spetta prendersi cura dell’ambiente creato dall’uomo”. E ancora, “Super Normale è più comune nel mondo delle cose disegnate nel completo anonimato… tuttavia è possibile anche nel mondo delle firme dei designer, e penso che dovremmo essere d’accordo che non solo è preferibile, ma che sembra aprire al design un mondo del tutto nuovo. Libero dalla cappa del ‘Design’”[ix]. Il disegno industriale è stato da sempre strumento per la valorizzazione delle merci: in relazione alle esigenze economiche dell’impresa, ma anche per fornire qualità culturale e sociale. Che si trattasse della – a un certo punto finalmente – obbligata corrispondenza forma/funzione oppure delle “altre qualità” attorno cui si è interrogato il design fine secolo, dell’emozione, dell’interazione e così via. Dato per scontato il dovere estetico di un “buon progetto”, la questione pare essere oggi quanto debba essere esteso – nonché variabile in considerazione a tempi, luoghi e spazi – l’allargato concetto di una “nuova” funzionalità. O prestazione, performance, e via discettando[x]. Una certa parte del contendere e delle incomprensioni contemporanee fra i vari attori che concorrono al processo di determinazione finale del prodotto (designer, imprenditori, management, comunicatori, ecc.), la stessa confusione delle lingue che circonda il termine design, potrebbe avere a che fare proprio con la nuova idea di “funzione”. Ha scritto Fulvio Carmagnola che il design va oggi elaborando “una nuova finzionalità, un nuovo valore d’uso, che viene chiamato appunto ‘simbolico’ e che preferisco definire ‘immaginario’. Sistemi che diventano così luoghi primari di sperimentazione di quella fusione fra immaginario ed economia”[xi]. Parlare oggi di oggetti che abbiano le qualità logiche, essenziali e necessarie del design anonimo vuol dire dunque affrontare la questione del momento transitorio del design contemporaneo, di frequente segnato da scarsa qualità e innovazione; in qualche crisi di identità e orgoglio, spesso in balìa di elaborazioni mascherate da profonde verità a proposito delle obbligate necessità del mondo globalizzato, delle magnifiche sorti e progressive del mercato e delle presunte esigenze del consumo. Senza gran cura di una qualche responsabilità che – fra gli altri – impresa e progetto potrebbero o dovrebbero avere nei confronti della vita e del mondo.


[i] Si veda G. Kubler, La forma del tempo. Considerazioni sulla storia delle cose, Einaudi, Torino 1976.

[ii] S. Giedion, L’era della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1967 (ed. or. Mechanization Takes Command, Oxford University Press, London 1948, pp. 11, 12).

[iii] “Le macchine instaurano una relazione commerciale ‘fredda’, che supera la necessità di rapporto fra due persone, un legame tendenzialmente anonimo, esattamente come l’aspetto degli stessi apparecchi deputati alla vendita. Un’interazione anonima e fredda solo progressivamente ‘sciolta’ dalla presenza di scritte pubblicitarie sulle vending machine. Nello stesso prodotto finiscono allora per assommarsi il minimo di caratterizzazione formale e il massimo di quella comunicativa-pubblicitaria: esempio di totale identificazione fra oggetto e immagine del brand” (A. Bassi, Nonoggetti, superoggetti: tre generazioni di vending machine, in “Casabella”, 716, novembre 2003, pp. 85).

[iv] M. Augè, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993, p. 73.

[v] All’interno di una mostra allestita al MoMA di New York e di un volume intolato Humble masterpieces. 100 every day marvels of design, Thames & Hudson, London 2005, curati dalla stessa Antonelli.

[vi] 999 Phaidon Design Classics, 3 voll., Phaidon, London 2006.

[vii] A. Bassi, Design anonimo in Italia, Electa, Milano 200

[viii] La mostra Super Normal è stata allestita prima a Tokyo (Galleria Axis, giugno 2006) e poi a Londra, accompagnata da una piccola pubblicazione edita da Lars Müller.

[ix] N. Fukasawa, J. Morrison, Naoto + Jasper = Super Normal, in “Domus”, 894, luglio 2006, pp. 32.

[x] “Finzionalità” in F. Carmagnola, Fine dell’innocenza, cit., p. 34. Si parla del valore fantasmatico, oltre a quelli d’uso e di scambio, in M. Pezzella, Il volto di Marilyn. L’esperienza del mito nella modernità, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 71-73.

[xi] F. Carmagnola, Fine dell’innocenza, cit., p. 34.

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